FIDATI DI NOI!

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domenica 18 gennaio 2015

Ops! Mi è scappato un ragutto!

Ieri sera tra i primi piatti di un ristorante ho trovato le “tagliatelle al ragout” e ho riso tanto, un po’ perché ho una personalità estremamente demenziale e un po’ perché io ho sempre scritto “ragù”. Mi sono documentata, perché mi piace scrivere (più che parlare) con cognizione di causa, ed ho scoperto che la parola “ragout” esiste, tuttavia per essere corretta dovrebbe riportare un apposito accento sulla lettera u che la tastiera del mio pc non mi permette di fare. Come mi dice la brava Wikipedia però deriva dal sostantivo francese "ragouter", cioè “risvegliare l’appetito” e in Francia si utilizza per indicare una specie di spezzatino. Ordunque sempre di pezzi di carne alla fin fine si tratta, ma con cotture e consistenze molto diverse. 

Navigando ho scoperto anche che il nostro caro duce dall’alto della sua storica mentalità aperta aveva imposto durante il regime fascista l’utilizzo della parola RAGUTTO per indicare tale pietanza; ciò per non inzozzare la nostra CULtura con quella dei vicini d’oltraple ... non sia mai. Mi dolgo oltre che per l’ignoranza congenita di certe “persone” anche per l’aver avuto la bella idea di apostrofare un cibo che già non si può definire esteticamente invitante con un nome in assonanza con “rutto”: immagino che se il ragù avesse avuto delle quotazioni in borsa all’epoca sarebbero rovinosamente precipitate. 

Le influenze di altre lingue, giuste, sbagliate o dialettali che siano mi hanno sempre affascinato: mia nonna qualche anno fa se ne è venuta fuori con un “passame la possada!” riferendosi alla forchetta, che ancora oggi al sol ricordo risveglia la mia ilarità. Non è strano sentire nel dialetto veneto lo spagnolo e ciò è bello no? Cioè pur se non vogliamo, anche se la Spagna la odiamo quando vince i mondiali e aborriamo le corride; poi alla fin fine le siamo legati e proprio per questo ci piace Barcellona e autodefinirci calienti a letto. 

Ma ritornando al francese, una mia amica al liceo mi raccontò di come i suoi genitori invece di “blu” dicessero “blè” (credo inteso come il suono di “bleu”): ho subito immaginato un jazzista col suo sassofono in mano -faccia triste ma ispirazione artistica sempre accesa- girarsi verso di me dicendo “oggi mi sento un po’ blè”. 

Lo so… lo so che se solo mettessi la stessa attenzione che metto in ste cazzate in cose serie, in questo momento il mio potenziale sarebbe più ben riposto, ma non riesco a smettere: che farci? 
Intanto … guardo in su e il cielo è sempre più blè … nananana nanananana!

Zeviannette

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